Nel maggio del 2021, durante un open day a Sestri Levante, Camilla Canepa, una giovane di appena 18 anni, venne inoculata con il vaccino AstraZeneca. Poco dopo l’inoculo, la ragazza sviluppò una grave trombocitopenia, nota come VITT, una reazione avversa ben presto prevista dagli studi scientifici emergenti.

Nonostante il quadro clinico e le evidenze – già documentate, seppur minimizzate all’epoca – collegassero direttamente il vaccino alla tragedia, il procedimento giudiziario si è concluso con l’assoluzione dei medici e delle istituzioni coinvolte. La sentenza, così scontata, ha suscitato ampie polemiche, ricordando il già noto caso del marinaio Stefano Paternò, dove la responsabilità fu ricondotta unicamente al vaccino, mentre nessun operatore sanitario ha dovuto fare i conti con le conseguenze delle proprie scelte.
Una giustizia che tradisce la Costituzione
La sentenza di assoluzione, lungi dal proteggere la salute e i diritti fondamentali dei cittadini, appare come il risultato di una struttura giudiziaria e istituzionale compiacente col potere e incapace di prendere decisioni coraggiose. Non si tratta di un caso isolato, bensì del triste epilogo di un sistema che, sotto il vessillo di una “democrazia antifascista”, si piega alle convenienze politiche, negando il diritto alla salute, la libertà di ricerca scientifica e tecnica, e persino il diritto all’assistenza privata libera e indipendente. L’azione sanitaria – e il relativo protocollo ministeriale che ne ha mascherato le criticità – ha oscurato il principio fondamentale secondo cui la ricerca scientifica deve basarsi sulla professionalità e sulla coscienza dei medici, non su direttive burocratiche che, in ultima analisi, offrono un’arma d’impunità agli operatori.
L’assoluzione: un atto di fascismo moderno
La vicenda di Camilla Canepa non deve essere vista come un singolo episodio sfortunato, ma come una pagina vergognosa della giustizia italiana. È inammissibile che, davanti a un danno irreparabile, il sistema si limiti a indicare il vaccino come “colpevole” in astratto, senza mai attribuire responsabilità a chi, quotidianamente, ha il compito di tutelare i cittadini. Tale modus operandi, che scarica ogni responsabilità su uno strumento medico, configura un meccanismo che ricorda il fascismo: una tirannia silenziosa che imbratta di legalità la vera ingiustizia, negando i diritti sanciti dalla nostra Carta, dal diritto alla salute alla libertà di ricerca, fino al diritto a un trattamento medico adeguato.
Una critica senza compromessi
È tempo di aprire gli occhi e riconoscere che, dietro la facciata rassicurante dei protocolli e delle linee guida, si nasconde un sistema che tutela i potenti mentre sacrifica i deboli. La morte di Camilla Canepa, come quella del marinaio Stefano Paternò, rappresenta una condanna a morte moderna, una verità sepolta sotto una montagna di burocrazia e interessi politici. La totale assenza di responsabilità penale e civile nei confronti di medici e istituzioni non è che un’ammissione tacita: in nome dell’ordine e della sicurezza collettiva, ogni critica e ogni ricerca della verità devono essere annullate.
Conclusioni
Dobbiamo domandarci: quanto ancora dovremo sopportare decisioni che tradiscono i valori fondamentali della nostra Costituzione? Il diritto alla salute, la libertà di ricerca e la sicurezza del paziente non possono essere sacrificati per preservare logiche di potere e interessi economici. La sentenza che ha ignorato la scienza e la coscienza medica rappresenta un attacco frontale a ciò che in Italia dovrebbe essere sacro: la dignità umana e l’autonomia del medico. È giunto il momento di rinnovare l’impegno per una giustizia autentica, che non si nasconda dietro protocolli ma abbracci la verità e rispetti la vita.