Il 21 febbraio 2020, a Codogno, veniva diagnosticato il primo caso ufficiale di COVID-19 in Italia. Iniziava così un’era che non ha solo segnato la storia sanitaria del nostro Paese, ma ha profondamente trasformato il tessuto sociale e culturale. Per una persona con disabilità, la gestione della pandemia è stata una prova di resistenza che ha mostrato la vera tempra di chi è abituato a superare ostacoli ogni giorno.

L’asintomatico untore: un nuovo paradigma di esclusione
Uno degli elementi più inquietanti della narrazione pandemica è stato l’uso mediatico del termine “asintomatico”. Prima del 2020, un malato era una persona con sintomi. Con la pandemia, invece, chiunque poteva essere considerato una minaccia, anche senza alcuna manifestazione clinica. Questa narrazione ha portato a una profonda trasformazione sociale: il prossimo non era più un individuo, ma un potenziale pericolo.
Per chi, come me, ha già vissuto l’emarginazione sulla propria pelle a causa della disabilità, questa retorica non è stata solo inaccettabile, ma palesemente inverosimile. Noi sappiamo bene cosa significa affrontare difficoltà quotidiane e siamo consapevoli che un virus è solo un virus, non una giustificazione per lo stravolgimento delle libertà individuali. Molti di noi hanno affrontato questa fase con una tempra che pochi normodotati hanno dimostrato, paralizzati dalla paura alimentata dai media.
Lockdown e segregazione: l’isolamento forzato dei più fragili
Le persone disabili hanno vissuto i lockdown in maniera amplificata. Già prima della pandemia, l’accesso ai servizi, al lavoro e alla socializzazione era ostacolato da barriere strutturali e culturali. Con il COVID-19, queste barriere sono diventate insormontabili. Per molti, l’isolamento non è stato solo temporaneo, ma ha segnato un arretramento permanente nella partecipazione alla vita sociale.
Io stesso ho trascorso otto mesi in smart working per aver rifiutato il vaccino, una scelta personale che mi ha portato ad affrontare conseguenze sproporzionate. Nonostante ciò, ho resistito, come tanti altri, senza cadere in un vittimismo sterile, ma mantenendo la lucidità di chi sa distinguere tra precauzione e coercizione.
Dalla pandemia al controllo sociale: un modello che persiste
Oggi, a cinque anni di distanza, il modello di gestione emergenziale non è scomparso. Il potere, una volta assaggiata la possibilità di sospendere libertà fondamentali in nome della sicurezza, ha mantenuto quella logica di intervento. Il green pass è stato il primo grande esperimento di discriminazione sanitaria su larga scala, accettato senza troppe obiezioni in nome della salute pubblica.
Ma il punto non è più il virus. Il problema è il precedente che è stato creato. La pandemia ha insegnato alle istituzioni che il controllo sociale può essere legittimato attraverso la paura. Che la libertà può essere sospesa con una firma. E che chi si trova ai margini della società, come le persone disabili, non ha alcun potere contrattuale per opporsi.
Conclusione: cosa resta da fare?
Oggi, mentre il mondo sembra aver archiviato il capitolo COVID-19, noi che abbiamo vissuto sulla nostra pelle il peso delle restrizioni e della discriminazione dobbiamo fare una scelta: dimenticare o ricordare. Dimenticare significa accettare che tutto ciò possa ripetersi. Ricordare, invece, vuol dire pretendere che certe ingiustizie non vengano più giustificate in nome dell’emergenza.
Non dobbiamo più permettere che la paura diventi lo strumento per riorganizzare la società. Perché, come abbiamo imparato a nostre spese, una volta ceduta la libertà in cambio di sicurezza, nessuno ce la restituirà di sua spontanea volontà.