Operatori sanitari e farmaci letali: cosa c’è di “sanitario” nella morte?
Un’altra persona affetta da grave disabilità, colpita dalla sclerosi multipla in fase avanzata, ha scelto di morire.
Non si è tolta la vita con un gesto improvviso, ma con un farmaco.
Un farmaco che non cura, non dà sollievo, non apre alla speranza. Un farmaco che, somministrato da mani esperte, porta la morte. E non da solo: è stato preparato e prescritto da operatori sanitari.
Operatori sanitari.
Ecco chi ha accompagnato Laura Santi nel suo ultimo viaggio.
Ma c’è qualcosa di “sanitario” nel provocare la morte?
Un suicidio, per definizione, non può essere assistito. È un gesto radicale, che esclude ogni forma di supporto esterno. È una decisione ultima, estrema, e per questo — paradossalmente — spirituale. Perché interroga ciò che l’uomo è, ciò che crede, ciò che spera.

Laura Santi, giornalista e attivista, ha atteso due anni dal nullaosta dell’ASL. Poi, con la lucidità e la determinazione che l’hanno contraddistinta, ha portato a termine la sua scelta.
Al suo fianco, fino all’ultimo istante, suo marito Stefano. Una storia d’amore che non ha trattenuto la morte.
La sofferenza che resta: domande senza risposta e spiritualità censurata
Il suicidio assistito e l’eutanasia vengono discussi nei salotti televisivi, nei talk show, nelle sentenze dei tribunali. Ma c’è una voce che manca: quella di chi resta.
Perché ogni suicidio — che sia assistito o meno — lascia superstiti.
E per chi sopravvive, la vita si trasforma in un labirinto di domande.
Perché l’amore non è bastato?
Perché l’amicizia di una vita non è stata sufficiente a trattenere chi amavamo?
Perché il dolore ha avuto l’ultima parola, nonostante tutte le cure, le attenzioni, la vicinanza?
C’è una spiritualità del suicidio che non viene mai nominata.
Una spiritualità che si manifesta dopo, quando tutto è già accaduto.
Una spiritualità che tormenta i cuori di chi resta e che il mondo preferisce censurare, ignorare, anestetizzare.
Eppure, questa dimensione è fondamentale. È la grande realtà relazionale in cui ogni gesto estremo affonda le radici.
Non si muore mai da soli. Non si decide mai da soli. Anche quando la mano è tua, anche quando il consenso è informato, anche quando il dolore è insopportabile — c’è sempre qualcuno che verrà colpito da quella decisione. Qualcuno che ti ama, qualcuno che ti avrebbe voluto ancora.
E credimi: accettare e comprendere il suicidio di una persona amata non è semplice.
È un cammino lungo, duro, che attraversa il buio e non ha scorciatoie.
È un dialogo interrotto che continuerai per anni, magari per tutta la vita.
Per questo non possiamo parlare di eutanasia e suicidio assistito solo in termini tecnici, giuridici, ideologici.
Serve silenzio. Serve ascolto. Serve coraggio per nominare le cose per quello che sono.
Serve, soprattutto, una coscienza spirituale.
Non per giudicare. Ma per capire davvero cosa vuol dire che qualcuno che amavamo ha deciso di andarsene.
E che il nostro amore — pur vero, pur profondo — non è bastato a trattenerlo.
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