Da meno di una settimana sono un sopravvissuto di un suicidio: sono chi resta. Quando si discute di suicidio, si parte sempre dalla volontà di chi lo compie, mai dal dolore, dai sensi di colpa e dal silenzio di chi rimane.
Questa mia nuova condizione, che – come accade a un genitore che perde un figlio – non ha un nome preciso, mi è stata imposta dal suicidio di una cara amica. Solo ora comprendo appieno il dolore dei sopravvissuti a un suicidio: un dolore che non fa notizia, perché nessuno parla di chi resta.
Eppure, a pensarci bene, chi rimane è l’unico in grado di raccontare il silenzio che segue, di spiegare quello che nessuno vede: l’immenso vuoto che si spalanca dentro.
Come sopravvissuto, sto attraversando un dopo fatto di silenzi densi di dolore e di sensi di colpa. Colpa di non essere stato presente abbastanza, di non aver compreso un lungo periodo di fragilità.

Tutto questo mi fa male, tanto male. Eva, cara amica, ti ho lasciata sola. Ovunque tu sia, perdonami.
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